Pensieri fluttuanti

Genetliaco

Bisogna saper invecchiare con grazia e leggerezza, lasciare la rabbia e l’irruenza dentro una scatola di latta, insieme alle foto di famiglia, quelle che si guardano con il nodo in gola e gli occhi umidi. Bisogna saper scendere dal letto lentamente, per non sentire la testa che gira e le ginocchia che scricchiolano, ripetere le poesie a memoria per allenarsi a non dimenticare. Si ha una vita davanti per imparare ad invecchiare: 9 mesi per venire al mondo ed una media di 80 anni per andarsene. Basta farci l’abitudine e guardare al futuro da un’altra prospettiva, quella che permette di capire che sono molte di più le cose fatte rispetto a quelle che restano da fare, per una questione di tempo, non certo di volontà o fantasia. Bisogna imparare a riconoscere il proprio volto ed il proprio corpo guardandoli allo specchio, accarezzando con cura le rughe senza cedere alla tentazione di stirare con le dita la pelle intorno agli occhi, alla bocca, nel tentativo di ritrovare chi eravamo e fare amicizia con quei capelli bianchi che ostinatamente crescono, oltre la tinta, i colpi di sole e quelli di luna. Bisogna imparare a contare le pecore per addormentarsi ed i lupi per restare svegli e non farsi azzannare da chi ormai ci considera merce scaduta, dimenticata nell’ultimo ripiano del frigorifero… ma, in fondo, il freddo aiuta a conservarsi meglio, si sa. Bisogna saper invecchiare con grazia e leggerezza per riuscire a volare che fa rima con amare e l’amore non ha età, credetemi.

 

 

 

4 commenti

  • Ilaria Francesca Martino

    Che grazia in questo suo scritto!
    Recentemente ho familiarizzato con il concetto giapponese di kijō (気丈), che mi ha fatto riflettere sul fatto che esiste un modo composto ed elegante di vivere ciò che ci tormenta, che non vuol dire soffrire di meno, nel caso si trattasse di un dolore, ma di farlo con garbo.
    Non avevo mai pensato che la sofferenza potesse essere come l’acqua, in grado di prendere la forma di ciò che la contiene, di adattarsi a chi la accoglie. Questo mi ha subito evocato il suo pensiero e l’immagine della scatola di latta dove la rabbia e l’irruenza trovano una forma, ponendosi accanto ai ricordi, ai nodi che si formano in gola e a quelli che si sciolgono sulle palpebre.
    Mutiamo, come tutte le cose che ci circondano e, come esse, ci trasformiamo, è inevitabile, e questo si sa, ma come sottolinea nel suo testo, meno scontato è il modo in cui si arriva a certe consapevolezze e come si decide di sostarvici.
    Quello che si vede oltre lo specchio delle brame passate o future di odissaica memoria.
    Ecco il geneatlico da festeggiare con selezionate presenze, ecco l’epifania di se stessi.
    Trovo molto in questo suo pezzo del concetto giapponese del Kijō, che vuol dire essere forti, senza mai cedere alla disperazione e di non prevaricaricare mai gli altri con il proprio sentire, piuttosto, condividere silenziosamente.
    In questa lenta bellezza fa capolino una energia finale, un terreno sconnesso, dove sembrano perdersi i sentieri tracciati. Apre le porte, come una bimba curiosa e indomita, a nuove esplorazioni, nuove possibilità, nuove suggestioni. Ritorna quell’inquietudine di qualche scritto fa, che io personalmente, ho trovato meraviglioso. E i giochi ricominciano, con un nuovo garbo e una nuova eleganza di un’anima che vive.
    Mi consenta di chiudere con i versi finali di Kavafis perché questo è quel che io sento, a leggerla:
    “Itaca ti ha dato il bel viaggio, 
    senza di lei mai ti saresti messo 
    in viaggio: che cos’altro ti aspetti?

    E se la trovi povera, non per questo Itaca ti avrà deluso. 
    Fatto ormai savio, con tutta la tua esperienza addosso 
    già tu avrai capito ciò che Itaca vuole significare”

    ….l’approdo finale è il viaggio stesso.

    Grazie per i suoi scritti che sanno far viaggiare!

    Ilaria

  • Barbara Colombotto Rosso

    E’ molto difficile non prevaricare chi ci sta accanto con il proprio sentire, non mettere sofferenze, delusioni al centro delle vite altrui, aspettando se non addirittura pretendendo un qualche riscatto. Io ho la fortuna di dare la forma delle parole a questo mio percepire la vita a volte doloroso, certa che qualcuno ci si possa ritrovare o forse perdere.
    Questo suo concetto giapponese, Kijō, mi ha fatto ripensare a quella tecnica meravigliosa che si chiama kintsugi con la quale i giapponesi riparano gli oggetti rotti evidenziandone le crepe con un collante misto a oro, argento o platino. Il risultato è qualcosa di nuovo, impreziosito dalle ferite che solo apparentemente lo avevano distrutto. In fondo le nostre cicatrici sono segni indelibili che dobbiamo imparare a fare germogliare.
    Grazie per il rimando, le sue preziose parole ed i versi di Kavafis… il viaggio non è la meta, lo sappiamo bene noi che facciamo tesoro di ogni singolo passo.
    Un caro abbraccio.

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