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Hanno detto di…

C’è un luogo segreto dove le Storie si incontrano e si tengono timidamente per mano nell’attesa di prendere vita. In quel luogo, fatto di silenzi e strane alchimie, le Storie attendono solo di essere raccontate.

Cercano la loro voce le Storie e una volta trovata, chiedono di essere ascoltate, narrate e lette perché qualcuno, un giorno, le ha sognate per noi.

A loro è stato dato il potere di giocare col Tempo, sfidandolo, trasformandolo, sbeffeggiandolo laddove necessario, fino a rinchiuderlo nelle pagine bianche, come si fa quando con un bicchiere capovolto si imprigiona una farfalla, lasciandola poi volare via.

Marcel Proust sosteneva che l’opera dello scrittore è solo uno strumento ottico, un mezzo fornito al lettore per discernere quello che non avrebbe potuto vedere all’interno di sé.

Sfogliare le pagine di un libro, infatti è come accarezzare un volto per la prima volta, prendere possesso di un confine, di una forma e di un’altra anima, entrando, anche se soltanto per una frazione millesimale di secondo, nel Tempo sacro dell’Universo.

Ecco, Barbara Colombotto Rosso, visionaria e surreale scrittrice, ha fatto questo per noi. Nelle sue vene scorre il genio di suo zio Enrico Colombotto Rosso ed è innegabile che Barbara usi l’arte della scrittura come suo zio usava i colori. Le sue parole padroneggiano la morte e la vita, gridano nell’oblio dei sensi o nel tormento della passione e altro non sono che il prolungamento di quelle pennellate, dolci o sferzanti, capaci di condurre nell’abisso del mondo degli spiriti o di farci destare in una stanza distopica.

Così, nel viavai dei destini incrociati e degli appuntamenti mancati, le Storie racchiuse in questo volume hanno preso vita dalle sue mani; le ha intrecciate e cucite, dividendole tra il Tempo psicologico e individuale e il Tempo di tutti, il Tempo del mondo: quaranta piccoli racconti scritti per permetterci di vedere quello che non era ancora possibile vedere, passando dall’altra parte dello specchio.

Lewis Carroll lo sapeva. Conosceva perfettamente le regole della scrittura, la luce e l’ombra che vive all’interno dell’essere umano e di ogni personaggio tutto di carta e di sangue. Per questo amava gli specchi e giocava nella magia della proiezione del nostro doppio, volta a penetrare nell’inconscio che tutto sa e tutto può disvelare. Anche Barbara Colombotto Rosso lo sa.

Dall’altra parte dello specchio c’è lei ad attenderci per condurci in un altrove, in un Tempo sospeso, irreale, salvifico.

«Quanto dura un istante?» chiede Alice al Bianconiglio.

E da colui che da sempre ha rincorso il Tempo arriva una risposta lineare, la più semplice possibile.

«A volte, solo un secondo».

Ecco, in quel secondo capace di cambiare per sempre i destini degli uomini, sono state concepite queste Storie.

Brevi, buffe, devastanti, ironiche, criptiche e ansiogene. Storie che conducono alla follia, Storie per quelli che hanno poco tempo e vogliono conoscere subito il finale, Storie di ieri, di oggi, di domani e poi chissà quali altre Storie ci verranno incontro.

I dettagli del quotidiano, la cacofonia delle voci che si rincorrono per le scale, le grida dei bambini che giocano nel cortile, il viavai frenetico delle auto, tutto confluisce dentro alle Storie, fino al silenzio atavico dell’Apocalisse chiamata Covid 19 dove anche le Storie si sono fermate, incapaci inizialmente di comprendere.

Nelle piazze deserte, nei cieli solcati dai droni, tra le sirene accese che a tutto volume violentavano la notte, il Tempo delle Storie è stato inesorabilmente diviso in uno spartiacque tra un prima e un dopo.

Leggere oggi questo volume di Barbara Colombotto Rosso, riporta inevitabilmente la memoria al pensiero di Michail Afanas’evič Bulgakov.

“Tutto passa. Passano le sofferenze e i dolori, passano il sangue, la fame, la pestilenza. La spada sparirà, le stelle invece resteranno, e ci saranno, le stelle, anche quando dalla Terra saranno scomparse le ombre persino dei nostri corpi e delle nostre opere. Non c’è uomo che non lo sappia. Ma perché allora non vogliamo rivolgere lo sguardo alle stelle? Perché?”

Tanto è stato scritto nel Tempo del Covid e tanto è stato detto. Ritengo però che difficilmente si possa scrivere in mezzo alla tempesta perché per mettere a fuoco quello che è realmente successo occorre prendere le distanze ed elaborare la Storia, quella con la S maiuscola, vedendola in una luce diversa o dando la possibilità alla Storia stessa di trovare una sua collocazione animica.

C’era bisogno di una spasmodica attesa per volgere la testa laddove tutto si è fermato, incasellando lentamente le parti di un puzzle collettivo. Ed eccole qui, quelle quaranta piccole tessere.

Nei racconti di Barbara Colombotto Rosso incontriamo personaggi bizzarri e non, osserviamo la bellezza delle piccole cose quotidiane, gioiamo di abitudini spesso bistrattate, divenute l’unica certezza a cui ancorarsi, quando tutto allora sembrava essere perduto.

L’approccio alla solitudine, i modi opposti utilizzati per esorcizzare la paura, il nascondimento, la ricerca del vero sé, il coraggio macchiato di follia e l’innalzamento in un salto quantico della coscienza collettiva, sono solo alcune sfumature del puzzle che questa autrice ha lentamente ricostruito nella comprensione della trasformazione della fenomenologia delle relazioni che il Tempo ci impone, a prescindere dalle nostre scelte. Ed è ancora lei che con le sue ali da libellula bianca si innalza dalle ceneri di una Terra nera, squarciata, violentata dall’interno.

Il puzzle ora è ricomposto, ma a noi resta la decisione finale.

La scrittura può curare, pacificare il dolore, tenerlo a bada, mostrare l’altra faccia della Natura che vuole comunque lasciarci una via d’uscita, eppure, tutto diventa vano senza la presa di coscienza di essere compartecipi di un destino, causa e effetto della stessa medaglia.

Una donna esile, quasi scheletrica, ritratta di spalle, avvolta in un lungo e impalpabile velo da sposa che tanto somiglia a un sacrario, cammina sola nella mancanza del passato e del futuro.

Lei, forse, sa dove è giusto andare.

Impregnate dell’essenza stessa della parola le illustrazioni sono parti vive dei racconti.

Nette, trancianti, coese e libere, si contendono colori o lasciano il posto all’immaginazione evocativa che parte proprio da un minuscolo dettaglio.

Fanno da corollario vignette esilaranti in un unicum letterario del cerchio della vita. Sono sequenze e scene le immagini, a voi starà ricomporre il puzzle.

Sabina Guidotti

La prima constatazione che ho fatto quando la prima volta ho sfogliato il libro: “Quaranta voci da un isolato frattempo”, è che si tratta di un progetto complesso, articolato: quaranta racconti, altrettante illustrazioni da essi ispirate, il processo inverso in appendice con una quindicina di immagini a ispirare la scrittura, un’altra sezione con una serie di vignette (argute e penetranti come poche altre ne ho viste). Un lavoro “corale” che ha visto impegnata una scrittrice e due illustratori, con contributi di altri due illustratori e di una blogger. Mi immergo, aspettandomi dal titolo: “quaranta voci”, una varietà di situazioni, di storie, di vicende umane, un grande ventaglio di “drammaturgia”, che il Covid ha soltanto esacerbato o fatto venire a galla. Una settimana dopo riemergo con una strana e disturbante impressione: non tanto per essermi reso conto di aver rimosso quel periodo, quanto per aver di nuovo scoperto la spessa corazza che mi ha “protetto” dalle esperienze forti della vita, che mi ha isolato dalle esperienze della vita. Ogni racconto spesso parte da ricordi della quarantena. Mi sono sorpreso a leggere quelle descrizioni senza provare la minima emozione: è uno dei meccanismi di difesa quando si cerca di richiamare stati di angoscia, così me lo sono spiegato. Poi i racconti entrano nel vivo dei drammi. Barbara è scrittrice di passioni forti, di tensioni, di sofferenze, di drammi, e anche di tragedie. I racconti più intensi (cito solo: “Come una gorgone”) hanno fatto venire fuori il mio malessere, e questo non mi era capitato prima, nelle mie assidue frequentazioni dei classici della letteratura. Barbara è capace di descrivere con crudezza, di esasperare situazioni estreme, cui spesso aggiunge una costruzione del racconto non lineare, enigmatica, capace di creare una suspense che porta ad un finale chiarificatorio e spiazzante allo stesso tempo. Barbara è però capace anche dell’opposto, di esprimere una toccante vena poetica, una grande delicatezza (“L’odore della pioggia”, “Che cielo sei?”), e di creare racconti che mescolano l’assurdo con la favola, con il surreale e le fratture psichiche (“Madame Nanou”). Molto bella l’interazione con le immagini nella sezione: “Visioni”, segno che le immagini sono vicine alla poesia.  

Io prenderei a prestito il titolo del libro di ricordi di vita di Pablo Neruda (“Confesso che ho vissuto”) per commentare alcuni dei momenti più intensi che Barbara ci racconta: che siano echi di sue esperienze personali, che siano frutto della sua immaginazione nulla cambia: sono lì, sono scritti.

Andrea Paolini 

Barbara  (Barbara Colombotto Rosso) crea vicoli, vie, pertugi li indica appena, li fa intravvedere. Lei pulsa, sente, annusa, viaggia nel mondo, ne sa percepire il ritmo anche quando è sincopato (soprattutto quando) perché conosce il potere della pausa e la voce del silenzio. Lei sa viaggiare nelle crepe di un presente che si è rotto. Il suo “Quaranta voci da un isolato frattempo” mi è parso una immensa stanza di analisi collettiva: si odono echi lontani, rimbombi di caverne interiori, roteano associazioni più che libere, fluttuano immagini caleidoscopiche. Poca è la censura (grazie Barbara!), l’attenzione richiesta deve essere fluttuante, per consentire l’immersione, le porte dell’intuizione sono aperte, ma non spalancate. In questa discrezione credo stia la Potenza e la Bellezza della scrittura di Barbara, la sua cifra stilistica, il suo stare al mondo con le parole e grazie ad esse. Si susseguono visioni, flash back, flash through, paure, angosce, sogni quasi dimenticati, speranze, desideri proibiti, negati o fin troppo ben espressi. Sbucano i rimossi e dettagli minuscoli che pesano come macigni. Ci sono minuzie che, se colte, aprono varchi ad un mondo così intimo da far paura, soprattutto se qualcosa di familiare improvvisamente risuona e irrompe. Si va per vicoli ciechi. Alla Colombotto viene bene. Non rifugge l’ignoto, lei, anzi, pare che lo ami, come si ama a luci spente, perché si sa, che quando si perdono i riferimenti è allora che si inizia a sentire per davvero. Il grottesco è così reale e l’ironia così tagliente da lasciare sospesi su un filo teso in mezzo al cielo, col naso all’insù a guardare le stelle per un tempo indefinito e con la paura eccitante del vuoto sottostante. Avevo paura, appunto, quando sono entrata in questo viaggio. Troppo fresche certe scottature per poter già apprezzare il tepore del sole. Eppure mi sono dovuta ricredere. Ci sono parole che sanno tenere per mano. Anche questo Barbara sembra saperlo bene. Il Covid è stata una grandissima occasione, un palcoscenico senza quinte, uno spettacolo senza finzioni, un cabaret senza copione, una mostra domestica di sé stessi e del proprio vivere quotidiano, talora misero, talora magnanimo. Rimuovere è il meccanismo di difesa più comune, il più semplice, ma anche il più pericoloso. Non dobbiamo dimenticare, piuttosto ripercorrere perché quella vulnerabilità sia parte di noi, nostra occasione di svolta. La vita ce ne dà di possibilità. A volte individuali, a volte collettive. In questo secondo caso,  il conforto e il confronto sono come barche in mezzo al mare. Anche questo Barbara sembra saperlo bene, infatti, ne ha costruita una.

“È un garbato vaffanculo”

“E chi li spreca, Francesco, i momenti difficili?”

“Lei che riesce a far lievitare i sassi”

“Certi amori non si possono capire, forse nemmeno perdonare”

“La solitudine ha un piccolo difetto: non ti chiama per nome, mai”.

“Segui le gocce disordinate sui vetri e pensi, come me ad un altrove”

“Fatti smontare tutto e poi rimontare. Lo so, probabilmente ti ricostruirei così, esattamente come sei, ma se dovesse avanzare una vite, la userei per stringere forte la mia mano”

“In fin di vita siamo tutti più buoni, si sa”

“Ripenso a te”

Ilaria Francesca Martino

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